Riflessioni monastiche,
pensieri ispirati e parole di fede
Tredici anni fa tornava al Padre celeste suor Chiara.
Al secolo Maria Annunziata Barboni, nata a Porto Corsini nel ‘24, quando il toponimo indicava il villaggio di pescatori e la lanterna. Del come arrivò al Cerbaiolo – e implicitamente alla sua personale fede - raccontava: "Mi sono arrabbiata con il Signore quando volevo che mi facesse trovare una casaccia dove potermi ritirare ogni tanto.
Ero in santa Chiara, ad Assisi, dove c’è il crocifisso che ha parlato a Francesco, e gli ho detto: “Ma quando me la dai una casaccia?” Sì, quella volta ci ho litigato. Ma poi si sapeva come sarebbe andata a finire". Nel 1960 del monastero benedettino di Cerbaiolo, originario del VIII secolo, che aveva visto il soggiorno di sant’Antonio e ospitato Giosué Carducci, restavano solo le rovine: nel ‘44 i tedeschi in ritirata avevano fatto saltare la chiesa e parte del convento.
Suor Chiara curò la ricostruzione di una porzione della grande struttura originaria e ci andò a vivere, "in un luogo solitario ma non chiuso". Ci sarebbe restata trent’anni, in compagnia delle sue amate “bambine” - un piccolo gregge di caprette – e persino d’un barbagianni.
Nelle stalle sussurrava la preghiera: "Padre nostro, dacci il nostro fieno quotidiano". Ravignana cenobita, si considerava del mondo ma non nel mondo. La sua semplicità era la profonda saggezza di chi, ponendosi le domande immutabili nascoste in noi, aveva trovato le risposte.
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In quella sera di confidenze e tradimenti il Maestro prese un pane ed un calice di vino, corpo donato e sangue versato per fare alleanza eterna fra Dio e gli uomini.
Un pane ed un sorso di vino, doni di Dio e del lavoro degli uomini, per nutrire e portare avanti la vita. Pane e vino da mangiare e bere per nutrirsi di Lui ed assimilare la sua vita, masticare e assorbire la sua esistenza, il suo sogno, Regno di Dio, facendo nostri le sue scelte e sentiment.
In memoria di Lui, non come semplice ricordo, ma rendendolo presente e vivo nell' oggi, divenendo con Lui e come Lui pane e vino per la vita del mondo, creando fraternità, solidarietà, condivisione, chinandoci sui piedi degli altri con tenerezza per servirli, cingendoci dell’unico paramento previsto dal Vangelo: l’asciugatoio.
Paramento che il Maestro non si è più tolto, riprendendo le vesti dopo la lavanda, lasciandolo come segno distintivo del discepolato vero, assimilato a Lui.
Nella Passione e croce il pane ed il vino da segno diventano realtà, corpo donato e sangue versato in fedeltà a Dio e agli uomini.
La croce nella sua forma richiama la dimensione verticale e orizzontale dell’amore, di quell' unico comandamento, da tenere unito, senza contrapporre Dio e l’uomo, semmai dare sempre priorità all’uomo a cui Dio dona la vita e non chiede la sua.
Il Sabato è il tempo del silenzio, ascoltare la vita, attendere il nuovo di Dio che si tesse e si gesta nel grembo della terra, per irrompere nel grido della risurrezione, della festa delle pietre rotolanti, perché la vita non può essere trattenuta, la morte non ha l’ultima parola. Gesù vive, per sempre. E noi con Lui.
Buon triduo santo.
I monaci da sempre hanno avuto un rapporto attento, di cura con il creato. Vivono scandendo il loro tempo con l’alternarsi delle stagioni attraverso l’anno liturgico.
I tempi di Avvento/Natale e Quaresima/Pasqua simboleggiano l’attesa e la resurrezione, la semina ed il raccolto, la vita nel suo dipanarsi nel tempo. Abitano il creato come metafora del cammino spirituale, simbolo della loro ricerca di sé stessi e di Dio.
Hanno dissodato terreni, come la propria anima, per renderli fertili e capaci di vita. Hanno strappato terra a paludi ed acquitrini per piantarvi viti ed ogni genere di frutti e vegetazione, così come nel cammino spirituale hanno tolto dal cuore attraverso l’ascesi la filautia, decentrando il proprio io e aderire all’Unum Necessarium, vivendo le promesse battesimali, che sono l’ideale monastico.
Hanno coltivato e custodito boschi, selve, monti. In essi hanno edificato monasteri ed eremi, perché la prossimità con la creazione fosse un aiuto alla lode di Dio ed alla contemplazione, proteggendo il silenzio e la solitudine dei monaci. Tra essi e il creato c’è un rispetto ed una custodia vicendevole.
Il giardino dell’Eden, in cui Dio e l’uomo passeggiavano insieme, non è per i monaci un Paradiso da rimpiangere ma da costruire vivendo la consegna, data da Dio ad Adamo di coltivarlo ( עָבַד - ‘avad) e custodirlo ( שָׁמַר - shamar), per trarci sopravvivenza e mantenerlo al futuro per le nuove generazioni, dando concretezza al famoso detto dei nativi Americani che ricorda che la terra non l’abbiamo ricevuta in eredità dai padri ma in prestito dai figli, perché è di Dio.
I verbi ‘avad, coltivare/servire come atto liturgico e shamar custodire/osservare, sono accostati alla creazione come alla Sacra Scrittura, in quanto anche in essa si squaderna la gloria di Dio come nella Bibbia, il Creato porta dell’Altissimo significazione.
Per questo va coltivato, come atto di culto, per dirne la sacralità e custodito, avendone cura, attenzione, rispetto, perché è terra santa.
Con il Mercoledì delle Ceneri inizia la quaresima, il tempo che si richiama ai 40 anni di cammino del popolo d’Israele e ai 40 giorni di Yeshua nel deserto, Tempo di ascolto e di scelte.
Un cammino che si snoda, come diceva Don Tonino Bello, dalle ceneri sulla testa del Mercoledì delle Ceneri all’acqua sui piedi del Giovedì Santo. Elementi del bucato antico per togliere dalla nostra vita macchie, impurità, sozzure, che nel tempo hanno deturpato e sporcato il capolavoro di Dio che siamo noi. Il vestito battesimale griffato con la firma dell’Altissimo.
La Parola ci richiama fortemente a ritornare a Dio: שׁוּב, shûb, che in ebraico indica un invertire decisamente la direzione, non solo in senso mentale ma proprio fisicamente, rendendo scelte e azioni la volontà di conversione.
Ritornare con il cuore, שׁוּב, leb, alla nostra coscienza, l’io profondo. Per aprirci, lacerarci dall' interno alla Parola, perché possa radicarsi in noi, abitarci, divenendo luce ai nostri passi.
Tornare fra lacrime, in ebraico דמעה dim'ah, dove la prima lettera ד dalet, indica la porta attraverso la quale entriamo nella mem da cui מים maim, acqua, l’acqua primordiale della vita, che sgorga dalla sorgente, עין ain, animata dalla ח, het, respiro, che rivela la sacralità delle lacrime.
Lacrime che ammorbidiscono il cuore, lo liberano dalla sclerocardia, ritornare fra i lamenti, in ebraico קינה qinah, sentire i lamenti di una vita, uccisa dalla mediocrità, dalla mondanità, dall’apatia e dalla noia. Paralizzata dal passato e dalla paura del futuro, abortita nei sogni e nelle speranze, in una religiosità priva di passione e di cuore.
Tempo che ci è dato per ascoltare il grido di Dio che ci invita alla pace, a ricominciare, a lasciarci amare e ricreare dalla sua misericordia, in ebraico קינה , rachamim, da racham/utero, a rinascere dall'alto, da acqua e Spirito, dal grembo di Dio.
Il Maestro ci invita ad entrare in contatto con la nostra interiorità, a cercare e adorare Dio in Spirito e Verità, digiunando, ossia a vivere in sobrietà, potando tutto ciò che frena e ammala la vita.
Digiuno che non è togliere qualcosa dal piatto ma aggiungere un piatto, per condividere.
Preghiera che non è dire parole o avere uno spazio pubblico per incontrarsi con Dio, ma cercarlo nel cuore, il Maestro indica la dispensa, la parte più intima della casa, per dire che Dio è il nostro nutrimento, che alimenta il respiro della vita.
L’elemosina di solito discrimina chi dà da chi riceve, che crea superiorità, distanza, riconoscenza.
Il donare deve diventare non una azione ma uno stile di vita, che rialza e mette alla pari e che lascia liberi, il solo modo possibile per chinarsi su un fratello deve essere quello di offrirgli un appoggio per rialzarsi e riprendere in mano la propria vita, decidendo il proprio futuro.
Quaresima, quaranta giorni per abitare il deserto, in ebraico מדבר, midbar. Il luogo dove accade la Parola, e ci riporta al mondo per essere cristiani, cioè segni e presenza del Maestro, avendo in noi i suoi stessi sentimenti e sogni.
Obsculta: ascolta. In questa parola, esortazione è riassunto il cammino del monaco e del discepolo del Regno.
Compendiato il programma di vita che dà corpo alla regola di San Benedetto, il monaco cristiano è chiamato a tacere e ascoltare l’unicum necessarium, predisporre la sua vita attraverso il silentium, taciturnitas e all’ habitare secum, solitudine. A cercare davvero il Dio vero: quaerere Deum, e l’uomo, sé stesso: quaerere hominem.
Il Padre del monachesimo occidentale, nell' incipit della sua Regola sottolinea l’ascolto "piegare l’orecchio” per ascoltare attentamente ogni giorno la voce di Dio.
Piegare l’orecchio dice sforzo, fisicità. Richiama all’ascesi (ἄσκησις, askesis palestra) cioè stile di vita che permette di ordinare pensieri, azioni, sentimenti. Di conoscere in profondità sé stessi, i "demoni" che ci abitano paralizzando e ammalando la vita, impedendo ad essa di scorrere, avvelenandola, per dirla con Enzo Bianchi, con lo spirito di nientità cioè del nonsenso.
L’ascesi aiuta ad imprimere alla vita consapevolezza, responsabilità e bellezza tenendola orientata verso il fine del cammino: Dio.
Piegare l’orecchio alla voce di Dio che non è solo la Parola, la Sacra Scrittura, ma ha anche il timbro del maestro, superiore, fratello/sorella, Regola, eventi, incontri, letture.
L’obbedienza, cioè il rendere vita la voce, è nutrita dalla preghiera che ne è il respiro e ne scandisce il tempo, rendendo il monastero casa Domini et schola servitii, scuola del servizio del Signore. Luogo dove il monaco/discepolo lavorando con attenzione fedele all’ora, lege et labora, ovvero prega, studia e lavora, nutrendo e unificando spirito, mente e corpo e che diventa sempre più humus, terra fertile in cui la Parola si realizza cioè diventa vera.
Ascolta…
( שמע, Shemà )
Ascolta Israele, שמע ישראל, Shemà Israel, è l’invito di Dio al popolo d’Israele. Egli si è rivelato come voce, Parola, non come forma, immagine, il popolo come il singolo israelita è chiamato ad affinare l’orecchio e a fare scendere la parola nel cuore.
Anche l’incipit della regola di San Benedetto comincia con l’esortazione: "Ascolta figlio le parole…" il monaco è invitato ad ascoltare, a discernere e decidere a quali parole dare credito e di quali nutrirsi,
L’orecchio è l’organo dell’ascolto. Ha una conformazione uterina, perché la Parola come seme possa fecondare la vita, tessersi dentro il credente, diventando carne, cioè concretezza, vita.
In ebraico orecchio si dice אוזן, òzenn. La parola indica attraverso le lettere che la compongono che Dio ( א Aleph) nutre ( zahin) l’anima (nun) attraverso l’orecchio (òzenn). È importante mettersi in ascolto, dare spazio al silenzio. I rabbini a tal proposito ci ricordano che Dio ci ha dotato di due orecchie e una bocca sola.
Appoggiare la Parola all'orecchio, nella lettura della Scrittura e nella preghiera dei salmi, perché pronunciati lentamente possano fermarsi alla soglia dell’orecchio e fatti calare nel cuore.
Shemà in ebraico non indica solo l’ascolto ma anche l’obbedienza alla Parola, perché la Parola scende nel cuore, In ebraico cuore, לב, leb non indica solo la sede degli affetti ma soprattutto il luogo dove si prendono le decisioni, la coscienza, il sacrario di Dio, dove l’uomo rende poi azione i propri convincimenti.
Come Salomone anche noi dobbiamo chiedere un cuore che ascolta: לב שמיעה, lev shemia’eh, un cuore che si nutra e custodisca la Parola, luogo in cui si legga la vita e si riconoscano i segni di Dio.
La preghiera è Silenzio che parla al silenzio, Voce di silenzio sottile, קול דממה דקה, Qòl demamah daqqah che feconda il cuore, e diventa carne, Parola visibile nella storia degli uomini.
P. Claudio eremita oblato camaldolese
Voce di un silenzio sottile,
קול דממה דקה, Qòl demamah daqqah ( 1 Re 19,12)
Il versetto è nel racconto del ciclo del profeta Elia, profeta dell'Assoluto di Dio, Adonai Echad. Elia come nella etimologia del nome stesso Eliyyah: colui che afferma che IHWH, è l’unico ed il solo Signore, contro l’arroganza della regina Gezabele che voleva imporre il culto a Baal e agli idoli, degli dei estranei ad Israele, vuoti e senza vita.
Elia lotta e cerca di richiamare anche con gesti forti il popolo alla vera fede, ma sente la fatica e lo scoraggiamento, il desiderio di abbandonare la sua missione. Dio lo nutre e lo accompagna verso l’Oreb/Sinai, per ridare Parola alla profezia, slancio, senso, obiettivo ai suoi passi, per tirarlo fuori dalla caverna, dall’isolamento, dalla paura, dal fallimento.
Elia ritorna alle origini, alla fonte della fede, l’Oreb, monte della rivelazione a Mosè e delle dieci parole, luogo della rivelazione di Dio. Si ferma e si raccoglie per abitarsi, ascoltare la vita, il proprio respiro, le ferite.
Percepisce all’esterno della caverna, cioè con consapevolezza, i vari moti della sua anima.
Il vento, che spacca monti e pietre, immagine dell’azione dettata dalla forza di volontà, quella volontà di potenza che diventa aggressiva, distruttrice.
Il terremoto, che richiama quei movimenti emotivi, che continuamente agitano la vita, senza dare stabilità, possibilità di costruire, punti fermi che orientano.
Infine, il fuoco, simbolo della passionalità. Quel fuoco che brucia senza dare continuità all’azione, alle scelte, alle esperienze.
Dio non è in questi fenomeni.
Voce di un silenzio sottile, il Signore è nel respiro lieve, nel Silenzio, perché il suo Nome è Silenzio, IHWH, è solo consonanti, impronunciabile, non chiuso in un concetto, idea, catalogabile nelle forme, immagini e categorie umane.
Dio è silenzio sottile che parla al silenzio, è vita nuda che si dice senza parole, voce che nello Spirito tocca le corde dello spirito umano e diventa melodia, canto come quello degli angeli che nel silenzio di parole pregano e lodano l’Eterno.
Perché silentium Tibi laus: il silenzio è per l’Altissimo lode.
P. Claudio eremita oblato camaldolese
Il silenzio è un tema caro alla tradizione monastica e a San Benedetto che gli dedica il capitolo 6 della Regola.
Il silenzio non è fine a sé stesso ma è orientato all’ascolto. Il discepolo è chiamato a tacere e ascoltare, le parole e gli insegnamenti del Maestro, della Sacra Scrittura e della Regola. Ascoltare le parole del Maestro vuol dire innanzitutto rottura con le altri voci, insegnamenti della mondanità, per prestare ascolto e nutrirsi della Parola, per seguirne e mettere in pratica gli insegnamenti di vita, al fine di intraprendere un cammino di conversio morum, conversione, cambiamento di vita, di punto di riferimento, di scala di valori, di interessi, di gusti, non più obbedienti agli idoli ma al Dio vero.
Silenzio che va coltivato e custodito sia esteriormente che interiormente, dando attenzione ad esso non solo tacendo, ossia non emettendo parole ma anche nei gesti e nel corpo per non propagare rumore negli ambienti.
Il silenzio è habitat per intraprendere un percorso di interiorizzazione ovvero conoscenza di sé, adempiendo il comando di Dio ad Abramo: Lech-Lecha ( לֶךְ-לְךָ ), va’!
Per te, dentro te, per incontrare gli angeli ed i demoni che hanno domicilio in noi, per poi essere liberi di incontrare il volto di Dio e non le proiezioni del nostro io.
Silenzio che è grembo della preghiera, respiro della vita interiore in cui si percepisce la voce di respiro leggero, la presenza dell’Altissimo, Silenzio avvertito come spazio necessario per l’ascolto accogliente dell’altro, senza subissarlo di parole che creano muri e bloccano le relazioni.
Benedetto parla del silenzio usando due termini che dicono il tacere, il chiudere la bocca, l’assenza di parole, strumento utile per non cadere nel chiacchiericcio, nel giudizio, nel peccato della lingua che uccide più della spada.
Silentium da silere che dice silenzio di parole, ma anche di quiete, silenzio di tutto ciò che toglie pace, che crea affanno, agitazione, e Taciturnitas, che richiama la discretio, ossia quell’attenzione intelligente, discernimento che ci fa gestare e filtrare parole e gesti perché siano nutrienti e veri a servizio della carità e della vita.
San Benedetto parla di un silenzio del corpo ossia di consapevolezza nei gesti e negli sguardi per non inquinare di rumore e di pensieri rumorosi gli ambienti del monastero e le menti dei monaci distogliendo gli altri e sé stessi dalla preghiera continua e dalla custodia del cuore.
La neve al Cerbaiolo ci faccia rientrare in noi, assaporando il silenzio, il tacere delle parole per dare ascolto alla Parola, all’eremo di farsi voce, di un silenzio sottile come la neve.
I monaci: contestatori del mito dell'efficienza, cercatori dell'Assoluto
Oggi la Chiesa celebra la festa liturgica di Sant’Antonio Abate, considerato Padre del monachesimo e del monachesimo anacoretico/eremitico in particolare.
È opportuno fare una riflessione sul monachesimo e sulla sua importanza per la nostra società. Lungo i secoli è stato percepito come fuga mundi, collocato nel deserto, inteso come luogo irraggiungibile e non interessante per il potere dominante.
I monaci non si allontanavano dall' umanità ma dalla mondanità. Da raggiungere per sé e come proposta per tutti, attraverso un cammino di unificazione, l’armonia perduta a causa del peccato. Diventare umani, divenendo armonici, riconciliati con sé stessi e con il tutto.
Cammino che passa attraverso l’ascesi (palestra), fatica che attraverso il silenzio, la solitudine, digiuno, veglie, ecc. cerca di modellare le proprie passioni mettendole a servizio della costruzione della propria armonia.
La marginalità del monaco rispetto la società, dice la distanza necessaria per creare uno spazio di dialogo che implica un cammino da fare.
Si deve capire che cosa vuole essere il monachesimo e il suo scopo. Quando si vuole definire qualcosa di solito si parte sempre dal fare, dalla operatività che rende visibile, il monachesimo ha una identità nascosta, non data dal fare, ma dalla gratuita', nel senso che non hanno attività specifiche, un ruolo funzionale nella Chiesa.
Il monachesimo è gratuità assoluta, unicità inspiegabile, puro segno nella Chiesa e nel mondo. Il monachesimo si è focalizzato sull’unum necessarium che combacia con il fine ultimo dell’essere umano,
Assoluto presente nell’attrarre e assente, mai totalmente arrivato. Nel cammino il monaco è chiamato a spogliarsi/denudarsi per dare spazio e sentire in maniera più forte la voce dell’Assoluto, lasciando andare tutto ciò che inquina, disturba, camuffa tale voce, e cerca un metodo cioè qualcosa che lo aiuti a rimanere in contatto con quel richiamo.
Il monaco è un cercatore costante: e un at-tendere, un essere proteso verso l’Assoluto.
Il monachesimo richiama alla sobrietà, Siamo pieni e ossessionati di bisogni, poco protesi ai desideri, che ci chiamano a domandarci che cosa è davvero necessario per vivere, necessità di essenzialità e leggerezza,
Si rischia di ridurre la propria vita a delle cose. Possedere è il contrario di ringraziare, ci impedisce di essere attenti alle dimensioni che ci danno senso, che rispondono alla vita con pienezza.
Usciti dalla sindrome del fare, dell’accumulare, emerge la dimensione dell’io profondo, della vera natura, la saggezza, che richiama la dimensione dell'Oltre, dell'affidamento, dell'abbandono, della preghiera, del silenzio, della vita pura.
P. Claudio, eremita di Cerbaiolo - oblato camaldolese